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25 Aprile 2024

OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI IN OCCASIONE DELL’ORDINAZIONE DIACONALE DI LUCA PRATTICHIZZO

Carissimi,

la nostra comunità diocesana oggi è riunita in una preghiera di lode per accompagnare il giovane Luca che sta per accogliere il dono del diaconato, mettendo nelle mani del Signore l’intera sua esistenza, il suo cuore, la sua volontà, il suo presente, il suo futuro. Quello di Luca, infatti, non è un atto di eroismo d’eccezione, ma innanzitutto un sincero atto di fede: “tutto posso in Colui che mi dà forza”, dirà san Paolo. È anche un atto di speranza in “Colui che fa nuove tutte le cose”. È un atto di carità, poiché il vangelo non si smentisce quando ci ricorda che “c’è più gioia nel dare, che nel ricevere” e che “non c’è gioia più grande che dare la vita per i propri amici”.

Il richiamo alla Prima Lettera di Pietro, fatto durante la veglia di preghiera vocazionale, sabato scorso in questa Cattedrale, mi permette facilmente di accogliere anche ora ciò che l’Apostolo ci affida. Ma prima di arrivare al testo che ci ha dato come consegna, vorrei concentrarmi su una precisa domanda, una di quelle che non facciamo spesso, poiché consideriamo scontata.

Qual è il forte motivo che stasera ci tiene qui? La domanda può apparire fin troppo ovvia e la risposta ad essa, fin troppo evidente. Per nessuno tra di noi, infatti, ci sono problemi nel rispondere che ciò che ci unisce e che dà forza e senso a questa nostra assemblea è proprio la nostra fede. Noi crediamo, pur con tutti i nostri limiti e con tutte le nostre contraddizioni, e la nostra fede non si presenta come una debole convinzione. Essa, invece, è invece una forza motrice e contiene in sé un’intima ragione, tanto importante e decisiva, da riuscire a cambiare per sempre il corso dell’esistenza, così come è già successo per molti di noi e come sta per succedere per te, caro Luca. La nostra fede ha una motivazione di fuoco che è in grado di rendere la nostra vita bella, radicalmente nuova. E questa motivazione ce lo ha testimonia a chiare lettere San Pietro quando afferma che “Dio ha cura di noi”. È bene ripeterselo costantemente, ogni giorno, senza stancarsi: Egli ha cura di noi! Scivolare frettolosamente su questa verità, indicataci dal primo degli apostoli, ci fa cadere nella superficialità e nell’ingratitudine e ci impedisce di giungere all’appuntamento più importante dell’esistenza: la scoperta del suo amore incondizionato.

Tutta la nostra vita si alimenta di cura, tanto che ogni persona ne ha sempre bisogno più dell’aria, più del cibo, anche quando si ostina a non ammetterlo. La vita umana, fin dal primo istante, infatti, non potrebbe essere pensata senza qualcuno che se ne prenda cura.

E stasera ci accomuna l’incredibile certezza che è il Signore a prendersi cura di noi e che la nostra esistenza, la nostra felicità sono la sua più grande preoccupazione. Non siamo aggiunti a Dio, non gli siamo indifferenti, ma nella sua onnipotenza Egli si riversa totalmente su di noi, custodendoci come la pupilla dei suoi occhi. Per noi Egli gioca tutto se stesso. Per noi non risparmia nulla.

Il nostro stare qui, allora, è la risposta grata alla cura che Egli ha per noi… è la risposta alla sua vicinanza, è la confessione di una fede che non delude e che abbiamo sperimentato vera e importante in noi. Stiamo qui per dirci che è tutto vero e che non potremmo pensarci senza il Signore!

Scongiurando proprio il rischio della fretta, vorrei che ora contemplassimo, per quanto ne siamo capaci, la straordinaria cura che Dio ha verso di noi e che prendessimo coscienza che essa non è mai generica. Come nella cura di cui abbiamo fatto esperienza in famiglia e tra gli amici e come in tutte le relazioni umane belle che costellano il nostro vissuto, così anche il modo di porsi del Signore verso l’umanità ha sempre le caratteristiche della concretezza. Egli non ci ama a distanza, rimanendo nella sala dei bottoni. Basta esplorare le varie tappe della rivelazione così come sono narrate dalla Scrittura per accorgersi della straordinaria declinazione del mistero dell’amore divino.

In particolare, oggi, vogliamo affidarci agli occhi e allo sguardo di fede di Marco. Egli contempla Gesù nella sua umanità, così simile alla nostra, e nello stesso tempo si sforza di cogliere in essa il mistero della sua identità divina. Nel suo vangelo si vede Gesù dormire pur in mezzo alla tempesta, perché sa di essere al sicuro nelle mani del Padre; lo si incontra assorbito da un’instancabile passione per le persone che incontra, tanto da non trovare nemmeno il tempo per mangiare; compie segni prodigiosi per aprire gli occhi ai suoi discepoli, ma si rattrista nel constatare la loro difficoltà a credere, la loro incredulità; si pone con fermezza davanti a chi lo avversa, non avendo paura di dire la verità, anzi di presentare se stesso come la Verità. Ma l’evangelista Marco, attraverso il suo testo ispirato, vuol condurre il lettore credente fino al momento della morte e risurrezione del Nazareno. È lì che il Signore attende ogni discepolo, perché solo lì, senza il rischio di possibili e facili equivoci, rivela la sua piena identità. Gesù, infatti, è custode di un segreto che verrà svelato solo sul calvario, per bocca di un centurione. E quel segreto è nello stesso tempo, lo “scandalo della croce” e il paradosso di un amore senza limiti. Quello scandalo e quel paradosso sono preclusi a chi non si pone in un docile cammino di discepolato permanente e a chi, più che capire, non è disposto a accoglierli come la parola di salvezza pronunciata per sempre da Dio per gli uomini di tutti i tempi.

Ecco, quindi, come Dio si prende cura di noi: abitando la nostra umanità, facendosi uno di noi e mettendosi accanto a noi. Mosso da compassione, infatti, e vedendo l’incapacità degli uomini a farcela da soli nel voler dare un significato pieno all’esistenza, si è fatto nostro prossimo.

Si impone ora un ulteriore passo: prendere consapevolezza che il Signore risorto continua a prendersi cura degli uomini attraverso la maternità della Chiesa, attraverso la comunità dei salvati, attraverso di noi, quindi. La grande missione della Chiesa, perciò, è quella di essere segno della cura divina attraverso l’instancabile annuncio della Parola, attraverso la fedele celebrazione dei sacramenti e attraverso la fede di tanti fratelli, di numerosi testimoni credibili. Il Signore parla attraverso di noi, il Signore ama attraverso di noi, il Signore salva attraverso di noi. Il fondamento di ciò sta proprio nel mandato che abbiamo ascoltato pocanzi nel vangelo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura”.

Andate, cioè, e raccontate di aver fatto esperienza, in prima persona, della cura divina. Appena dopo la Risurrezione, ancora prima della Pentecoste, gli apostoli, ancora terrorizzati per le vicende che erano successe, si sentono rivolgere direttamente questo mandato. Sarà poi la discesa dello Spirito a far capire loro l’importanza della missione ricevuta e a far maturare in loro la volontà di partire davvero. Sperimentano in prima persona che dall’incontro con il Signore vivo non poteva non scaturire l’impegno di vivere da testimoni del Risorto attraverso l’indomabile spinta a donarsi agli altri.

L’incontro con Lui, infatti, non paralizza, ma ha il potere di muovere il cuore, la volontà, la vita intera. L’incontro con Lui non disabilita alle relazioni proteggendoci in un clima sicuro, a nostra misura, non esigente e comodo, ma proprio dall’incontro con Lui scaturisce il massimo dell’apertura possibile che sollecita ad amare la terra, la storia, gli uomini, non dandosi pace alla presenza delle macro e micro ingiustizie.

Quel mandato perciò ha solo un nome: il servizio. Si nutre di servizio generoso, poiché amare significa spendersi senza misura e senza calcolo. Se non si veste di servizio l’amore rimane superficiale e passeggera emozione.

Ma non si rischia un po’ di ingenuità davanti a questa misura massimalista che, nelle intenzioni del Signore, pretende di raggiungere e di includere addirittura il mondo intero? Non si rischia di assaporare ben presto il sapore amaro della delusione nel constatare che sotto i nostri occhi non accade niente di nuovo o che addirittura il male prevale sul bene e l’odio sul tanto auspicato amore?

Sì, è vero! Sarebbe debole ed irrealizzabile utopia se tutto ciò dipendesse da noi e se avessimo la presunzione di pensare che il potere del cambiamento del mondo, la possibilità della salvezza nostra e degli altri rientrassero nelle nostre possibilità. Noi sappiamo per esperienza, però, che la salvezza viene solo da Lui e che noi rimaniamo sempre e solo dei salvati. Di conseguenza, “andando nel mondo” non portiamo noi stessi, ma il vangelo, quella Parola di vita, di cui ne abbiamo sperimentato l’efficacia. Il contenuto dell’annuncio, allora, è che c’è davvero una salvezza ratificata definitivamente da Dio e che essa sta per realizzarsi in noi, se solo lo vogliamo.

Aggiungo una parola sul verbo “proclamare”, contenuto nel mandato di Gesù risorto: “proclamate il vangelo”. Questo verbo rimanda alla prima forma dello stile dell’annunciatore, in quanto esprime le caratteristiche dell’annuncio di un atto ufficiale, di un evento che riguarda tutti e che ora viene affidato al passaparola di chi lo ascolta. Proprio quell’evento è la novità che attende di essere consegnata con gioia a chiunque. È l’annuncio della salvezza che non si aggiunge al vissuto degli uomini come pallida ed improbabile speranza, ma è la nuova realtà, l’incredibile nuovo orizzonte esistenziale che ci viene offerto e nel quale ormai ci muoviamo. Una realtà che è la condizione dei salvati e che attende solo di essere scoperta. La scoperta e la risposta alla proclamazione di quell’annuncio esigono il decisivo, infaticabile e credibile annuncio da parte dei discepoli.

Due modalità, infine, per raggiungere tutto il mondo, come ci chiede il vangelo.

La prima è quella di essere consapevoli che, anche se è vero che lo sguardo è sempre universale, l’unica via da percorrere è sempre quella del particolare, del radicarsi in un contesto concreto, a volte apparentemente piccolo e insignificante. “Ogni creatura”, così, sarà il mondo per noi. Siamo chiamati a vivere nei confini del nostro contesto concreto fatto di volti, di doni, di relazioni, di progetti, di limiti, di speranze e fallimenti, e, nello stesso tempo, siamo chiamati a saper andare oltre i nostri confini ristretti per ‘sentire’ le attese e le speranze, le fatiche e le gioie dell’umanità intera. Ma – lo sappiamo – la verifica del nostro reale stato di missione si fa nel “qui ed ora”. Non possiamo pensare troppo frettolosamente all’umanità intera, ai lontani, se il nostro concreto vissuto ci fa registrare continuamente stanchezza e delusione e se siamo più in atteggiamento dimissionario, più che in uno stato di appassionante missione.

La seconda modalità che voglio mettere in evidenza e che completa il quadro di chi si sente mandato ce la propone ancora una volta San Pietro nella prima lettura quando afferma: “rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri”. L’umiltà è l’unico modo per evitare di affiancare i fratelli che si incontrano con l’atteggiamento orgoglioso di chi si considera superiore, di chi pensa di essere il primo della classe.

Lo stile del servo è l’umiltà e proprio l’umiltà ha la forza di rivelare la trasparenza delle intenzioni. Essa dice che vogliamo servire senza servirci dell’annuncio stesso; dice soprattutto che l’efficacia dell’annuncio sta nel riconoscere che la salvezza non viene da noi e che non ci autorizza a porci come giudici verso gli altri. Ecco perché il primo banco di prova del un mandato evangelico è uno stile umile e disinteressato verso gli altri.

Perciò, caro Luca, non aver paura di donarti! Il dono incondizionato di stesso sarà il segno più bello ed efficace del dono che a tua volta hai ricevuto. Non spegnere mai il fuoco che hai dentro di te anche quando il cinismo di chi ti sta attorno ti fa credere che quello che fai sia inutile. Non cercare mai altre strade, anche se sembrano scorciatoie accattivanti, non cercare mai altre strade che non sia unicamente quella del servizio. Le motivazioni che oggi metterai come faro della tua esistenza ti chiederanno talvolta un alto prezzo, ma ricordati che quando ti capiterà, proprio quello sarà il momento più efficace, un momento che lascerà segni duraturi, indelebili e che, proprio in quel momento apparentemente buio, il tuo annuncio sarà più vero e credibile. Servi con generosità e senza misurare il dono di te, ma nello stesso tempo scopri di essere tanto ricco di chi accanto a te, fino ad oggi, ti ha già donato qualcosa o tanto o probabilmente tutto se stesso. Rimani servo e ama, allora.

Maria sia il tuo faro! Lei, già dalla prima ora, ha scelto la via del servizio, perché aveva compreso che il paradosso più grande ma anche più inimmaginabile era quello di aver incontrato un Dio che si fa servo di ogni uomo, buon samaritano, pronto a lavare i piedi anche di chi lo tradiva. Proprio così… perché prima ancora di chiedere agli uomini di credere in Lui, il Signore vuole dirci con tutto se stesso quanto Lui creda negli uomini.

Per questo, Luca, da oggi, diventando diacono, credi in Dio, ma non smettere di credere in chi ti sta accanto, perché questa è l’unica via per amarli senza ripensamenti.

Il Signore ti benedica e ti protegga!