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08 Aprile 2020

Lettera ai confratelli per il Giovedì Santo 2020

Cari fratelli nel Sacerdozio, cari Diaconi,

scrivo questi pensieri in giorni particolari, quelli che tutti stiamo vivendo, e che ci costringono a fare – e non fare – tante cose che nessuno aveva messo in conto. E sperimento, come tutti voi, i sentimenti più svariati, dall’ansia alla calma, dalla tristezza alla gioia, dalla noia alla sorpresa. Mi vengono in mente tante parole della Scrittura, certamente quelle che ci sono proposte dalla Liturgia delle Ore e dal Messale quotidiano, ma anche quelle che – depositate nel cuore dalla frequentazione della Scrittura – prendono una forma tutta particolare a causa dell’esperienza di questo tempo. Un tempo “santo” in ogni caso e sotto ogni punto di vista: Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia. Per questo egli ha bisogno di uomini che sappiano servirsi di ogni cosa per il fine migliore. Io credo che in ogni situazione critica Dio vuole darci tanta capacità di resistenza quanta ci è necessaria. Ma non ce la dà in anticipo, affinché non facciamo affidamento su noi stessi, ma su di Lui soltanto. In questa fede dovrebbe esser vinta ogni paura del futuro (D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa). Questo tempo è “santo” perché è rivelazione di Dio, della sua Presenza, della sua Parola, della sua Grazia, tutte dimensioni che si incarnano in ogni istante della nostra vita. Abbiamo certamente bisogno della fede per poter “vedere” la sua Presenza, la sua Parola e la sua Grazia qui e ora, e per poterlo fare abbiamo bisogno di uno sguardo “contemplativo” che ci permetta di passare da una lettura superficiale di quanto accade ad una lettura “sapienziale”. Contemplare deriva da cum e templum, “mettere tutto insieme sotto la volta del cielo”: essere capaci di “com-prendere” dare un “senso” a quanto la storia ci fa vivere. Quando guardiamo dall’alto di una montagna o dall’oblò di un aereo il paesaggio che sta sotto di noi, ne cogliamo di più e meglio la dimensione, i colori, la prospettiva… Avere uno sguardo contemplativo ci permette di vivere meglio il presente, la storia quotidiana e di “raccogliere” tutto all’interno di una prospettiva più ampia, quella datami dalla volta celeste. Paradossalmente potremmo dire che solo chi ha uno sguardo contemplativo è capace di concretezza vera, perché solo chi ha questo sguardo sa cogliere le vere dimensioni della vita e della storia. Nel resto dei casi c’è “agitazione”, un muoversi continuo senza criterio, attività fatta per sé stessa, strangolata dall’affanno di dover sempre rendersi visibili, individuabili. E dove la storia si mostra con la sua problematica criticità, emerge con chiarezza e prepotentemente chi siamo. Ce lo ricordava papa Francesco lo scorso 27 marzo: La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità.

Non possiamo non chiederci cosa offriamo come Chiesa e come sacerdoti al nostro tempo; non possiamo non fare i conti con questo pezzo di storia che ci è stato messo nelle mani e che dobbiamo consegnare al Signore, possibilmente con il contrassegno della nostra laboriosità, per non essere come il servo “malvagio e pigro” (Mt 25,26) della parabola evangelica. Se il nostro essere Chiesa è una voce come tante, espressione di sapienza umana, diventiamo anche noi oggetto di “Like” o di “cuori”: ma non è questo un atteggiamento “mondano”, che nulla ha a che fare con il Vangelo e la nostra sequela di Gesù? Per poter essere una voce differente dobbiamo però permettere che si possa percepire la differenza. Per poter essere una voce “altra” e “alta” (perché non appartiene a noi, ma alla forza rivoluzionaria del Vangelo) abbiamo bisogno di compiere questo cammino che va dalla “agitazione” alla “contemplazione” e ci permette di compiere il passaggio da una lettura “superficiale” ad una lettura “sapienziale”.

Il cammino che porta dall’agitazione alla contemplazione non si improvvisa, non si trova nel nostro DNA, ma si apprende dalla vita, attraverso una prolungata esperienza di vita, e dalla sapienza della Scrittura. Nel nostro DNA c’è il desiderio spasmodico di poter essere al centro dell’universo: tutti ne abbiamo fatto esperienza, da bambini, quando volevamo tutto, subito, come dicevamo noi. E questo DNA non scompare dalla nostra identità, ed è sempre pronto a manifestarsi in mille forme, in mille occasioni che la vita quotidiana ci fornisce. Il desiderio di mostrarci “speciali” rispetto agli altri, di pensare che tutto il bene possibile abita dentro di noi e tutti gli sbagli abbiano solo gli altri per causa, l’incapacità ad accogliere le regole offerte ad una comunità di cui facciamo parte (perché ci sentiamo “sopra” le regole) sono alcune delle forme attraverso le quali si mostra il nostro DNA. Questa struttura essenziale della nostra identità ci porta ad essere “agitati” rispetto a quello che facciamo, a quello che abbiamo, a quello che gli altri dicono di noi. Appartenendo a questo “tempo” così pragmatico, ci sembra doveroso dichiarare con orgoglio (anche giusto per carità) le innumerevoli iniziative che compiamo nelle nostre parrocchie, aggiungendo – non senza una soddisfazione superba – che corrisponde “giusto giusto ad una attività in più” della parrocchia confinante. E la stessa cosa vale con i numeri delle cose che abbiamo, dalle risorse personali alle amicizie altolocate, alla possibilità di avere sempre deroghe per le leggi (“abbiamo sempre un motivo che ci mette dalla parte degli speciali”). E la nostra gioia e corrispondentemente il nostro turbamento e angoscia nascono sostanzialmente dalla stessa fonte: sapere quanta gente ci applaude e quanta gente ci critica. Capiamo bene che “parametri vitali” come questi non ci danno la felicità, ma ci mettono in continua agitazione per poter tenere in alto i nostri “numeri”. Per poter passare alla dimensione della contemplazione abbiamo bisogno di “decentrarci”: la Scrittura ce lo dice chiaramente nelle sue prime pagine, dove afferma che nell’ “in principio” c’è Dio, e non l’uomo. Se nel passato Dio veniva utilizzato come elemento minaccioso e punitore (esagerazione evidente, e non va bene presentare Dio con affermazioni così lontane dalla sapienza evangelica) che stava sempre sullo sfondo della vita degli uomini, oggi il riferimento a Lui non è più corretto secondo la sapienza evangelica, è semplicemente evanescente o assente del tutto. Passare dall’agitazione alla contemplazione significa avere Dio come punto di riferimento costante della nostra vita, delle nostre scelte. È una lotta dura far spazio a Dio se al centro del mio cuore la dittatura del mio “io” è più forte. Ma se manca questo riferimento fondamentale, mancano evidentemente le basi per iniziare qualunque percorso verso la contemplazione. Ogni nostra attività ha per obiettivo Dio o il nostro “io”? È una domanda con una difficile risposta, perché ognuno di noi sa quanto amor proprio c’è nel nostro cuore e come siamo capaci di far passare come atto di devozione a Dio qualcosa in cui è invece abbondante il nostro tornaconto… Ecco perché abbiamo bisogno di dilatare lo spazio del nostro cuore all’ascolto, al silenzio, al confronto. Ogni fatto della nostra vita può essere letto solo nella misura in cui mettiamo fra noi e l’esperienza fatta una distanza ottimale: così come per poterci vedere allo specchio abbiamo bisogno di allontanarcene un po’. Questa distanza ottimale ci è data dall’ascolto, dal silenzio, dal confronto della Parola di Dio, nel segreto del nostro cuore, nella preghiera quotidiana che assume tutta la vita e la legge con lo sguardo stesso di Dio. Non è sufficiente credere che Dio esista, ma è necessario imparare e vivere quello che ci insegna. La parola di un contemplativo viene ascoltata, perché esprime una “alterità” che sta dentro di noi come desiderio di assoluto; la parola di un agitato commerciante di sacro viene smascherata subito dalla incoerenza della vita e dalla incapacità di spingere a guardare oltre. Scriveva ad un suo figlio spirituale un sacerdote d’altri tempi: Perciò ti auguro, quasi ancora più che l’amore stesso, l’affanno per l’amore eternamente lontano, la dolente insoddisfazione di qualsiasi amore che possediamo e viviamo; […] questo ansioso guardare verso le lontane, azzurre alture, che ci sembra di non poter mai raggiungere, perché l’amoroso andare stesso le spinge, continua a respingerle alla lontananza: l’amore cresce con l’amore, tanto che l’appagamento sembra sempre più impossibile (Lippert).

Il cammino che porta da una lettura superficiale ad una lettura sapienziale può avvenire solo in chi ha accolto dentro di sé il desiderio – almeno quello – di poter avere occhi “nuovi” regalati dalla pratica della contemplazione. Una analogia che può essere utile a comprendere la differenza fra superficiale e sapienziale è quella che possiamo fare con qualcuno che ha tante cose ma messe in disordine e sovrapposte e qualcun altro che ha le stesse cose messe in ordine. Nel primo caso le cose che mi appaiono più significative sono quelle che stanno casualmente sulla superficie: magari sono più colorate, hanno una forma più gradevole e dunque il mio sguardo si orienta su quelle. Nel secondo so dare un giusto valore alle cose, riconoscendo la bellezza di alcune ma mettendo in evidenza la priorità di altre. Lettura sapienziale della vita è quella che ci propone sant’Ignazio di Loyola nei suoi esercizi spirituali: Esercizi spirituali per vincere sé stessi e mettere ordine nella propria vita (EESS 21). Uscire dalle strettoie delle cose apparentemente urgenti. Scrivevo nell’editoriale di “Oltre la porta” a Quaresima appena cominciata, ancora inconsapevole di come questa Quaresima si sarebbe poi sviluppata: Abbiamo cominciato da poco un tempo speciale, la Quaresima, occasione davvero formidabile per accogliere il “tempo” come dono e compiere due operazioni: mettere ordine e fare verità. E se vogliamo mettere ordine abbiamo bisogno di svincolarci dalle “urgenze” e stabilire “priorità”. Nell’urgenza non siamo noi a scegliere, è la contingenza che preme sulla nostra vita; quando stabiliamo le priorità, la nostra vita piano piano si ordina secondo un progetto, un fine che dà sapore alle giornate, anche alle più convulse e piene di urgenze. Ma abbiamo bisogno di fare silenzio, di sostare a lungo ascoltando la Parola. Quali sono le urgenze e le priorità della nostra vita personale, sociale, ecclesiale? Le urgenze ce le offre la routine, il “s’è sempre fatto così”, le attese e le pretese del mondo. Le priorità ce le offre il Vangelo: Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6, 33). Per poter imparare a cambiare il nostro stile e passare da una lettura superficiale a una lettura sapienziale della nostra vita abbiamo bisogno di imparare a “vedere” con gli occhi della contemplazione. Mi faccio aiutare da un esperto di Sacra Scrittura quale era il grande Ignace de la Potterie a comprendere una particolarità del Vangelo di Giovanni: l’utilizzo del verbo “vedere”. Come sapete nella lingua greca il verbo “vedere” si esprime in modi differenti, ognuno gravido di significati e di sfumature differenti, che l’evangelista Giovanni conosce e usa sapientemente. Il primo livello del vedere è il livello dello “scorgere” (βλέπω): lo troviamo usato per la scena iniziale del battesimo al Giordano. Giovanni Battista “scorge” Gesù che viene a lui e dice: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1, 29). Un verbo usato più spesso nel quarto Vangelo è θεωρέω (donde deriva teoria). Questo verbo descrive lo sguardo scrutatore di colui che osserva attentamente. Viene usato quando si tratta di cose straordinarie, come i segni che Gesù faceva (Gv 2, 23; Gv 6, 29); anche qui questo guardare attento è giustapposto due volte al credere in Gesù (Gv 6, 40; Gv 12, 45): questo osservare attento è già uno sguardo di fede. Lo stesso verbo viene usato nell’ultima cena per i discepoli che guardavano attentamente Gesù che stava per lasciarli (Gv 16, 10.16.17.19). Terzo verbo è θεάομαι (da cui deriva teatro). Con questo verbo facciamo un passo più avanti: possiamo tradurlo con contemplare. Che, come nota von Balthasar, non è il contemplare platonico, ma lo stare di fronte all’evidenza dei fatti. È infatti uno sguardo che riconosce stupito la bellezza dell’oggetto e quindi cerca di penetrarne il mistero. Quando viene applicato a Gesù, viene chiaramente indicato che nella realtà che i discepoli vedevano con gli occhi del corpo riconoscevano stupiti “la gloria dell’unigenito venuto dal Padre” (Abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito, venuto da presso il Padre, Gv 1, 14). Lo sguardo attento e stupito – contemplativo – dei discepoli su Gesù scopre in lui la sua venuta da presso il Padre. Arriviamo così alla forma verbale più completa, quella che troviamo anche in Gv 14, 9: il verbo comune «vedere», ma usato al perfetto έώρακα. Applicato a Gesù, descrive ciò che lo sguardo attento e stupito ha scoperto in lui, e di cui si conserva nella memoria la scoperta. Possiamo osservare che ogni volta che Giovanni usa questo verbo “ho visto” (e ne conservo la memoria) Gesù viene riconosciuto come il luogo santo dove Dio si manifesta, il tempio della presenza divina, la casa ovvero la dimora in cui Dio stesso abita. In un tale contesto diventa chiaro il senso del nostro versetto 14, 9: Chi ha visto me ha visto il Padre. Aver visto Gesù e conservarne la visione interiore nella memoria vuol dire riconoscere Gesù come il luogo di inabitazione del Padre, presente nel suo Figlio come in una dimora. Lo stesso evangelista in 1, 14 ci invita a comprendere che nell’uomo Gesù — il Verbo fatto carne «pieno della grazia della verità» in cui i testimoni hanno “contemplato la gloria dell’unigenito” — c’era un mistero, «insondabilmente nascosto» ma che ci viene manifestato «simbolicamente» (san Massimo il Confessore). È il mistero dell’«unigenito venuto da presso il Padre», che «è venuto a mettere la sua tenda in mezzo a noi». Il mistero dell’unigenito figlio di Dio che è venuto in mezzo a noi e continua ad abitare la nostra storia che è diventata – per il mistero della Sua Incarnazione – la terra santa nella quale
Dio si rivela, e sulla quale bisogna camminare a piedi nudi (cfr Es 3,1-6). I cristiani sono chiamati a compiere queste operazioni, a diventare abili nello sguardo in tutte le sue molteplici sfumature, chiamati ad esercitare il ministero della profezia scorgendo il mandorlo fiorito (Ger 1, 11s) o il deserto lussureggiante di colori (Is 35, 1-2). E se a questo servizio sono chiamati i cristiani comuni, quanto più a questo servizio sono chiamati coloro che nella Chiesa esercitano un ministero! Quanto è triste ascoltare banalità spacciate per verità! Quanto poco il linguaggio dei cristiani si differenzia da quello di coloro che non hanno “visto” il Verbo della Vita che ha posto la sua tenda in mezzo a noi! Imparare a “guardare”, a contemplare, ad ascoltare molto, a parlare poco, a rallegrarsi molto per il dono della nostra chiamata ad essere sale della terra e luce del mondo! Potrebbe essere questo un primo programmino per arrivare – quando il Signore ce lo concederà – a sperimentarci nella “contemplazione” e a passare piano piano dalla superficialità alla sapienza.

Possiamo verificare, alla luce di queste riflessioni, il nostro cammino personale, ecclesiale, sociale e chiedere al Signore di aiutarci a camminare insieme – secondo la Sua Volontà – verso una esperienza sempre più viva di Lui, che ha vinto tutto ciò che si oppone alla nostra realizzazione, mostrandoci con la sua Parola e con la sua Testimonianza la bellezza del Vangelo. Proprio dall’esperienza del Vangelo scaturiscono le bellissime parole con cui i Padri Conciliari hanno cominciato il documento Gaudium et Spes: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia. Proprio perché ci sentiamo intimamente solidali con il genere umano e la sua storia ho devoluto all’Ospedale di San Severo, a nome dei sacerdoti della Diocesi e del Vescovo, 8000 euro per l’acquisto di una struttura adeguata per custodire i broncoscopi così necessari in questa emergenza COVID-19. In genere siamo soliti raccogliere fra noi sacerdoti, il giovedì della Settimana Santa in occasione della Messa Crismale, delle offerte come espressione di comunione e di servizio nei confronti dei bisognosi. Con tutta libertà, chiedo la carità di contribuire, ognuno secondo le proprie disponibilità, a questo dono che facciamo con un bonifico sul conto della Diocesi di San Severo UBI Banca IT 43Y0311178630000000002480 o portandoli all’Economato della Diocesi una volta aperta la Curia.

Vi ringrazio di essere arrivati a leggere fin qui e vi chiedo scusa se sono stato così lungo. Ma mi manca assai il non potervi vedere e incontrare di persona, soprattutto il Giovedì Santo. E avevo voglia di dirvi tante cose perché vi voglio bene. Santa Pasqua, cari fratelli!

Giovedì Santo, 9 aprile ’20

† Giovanni Checchinato

LETTERA AI CONFRATELLI PER IL GIOVEDÌ SANTO 2020