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05 Aprile 2022

IL VENERABILE DON FELICE CANELLI E IL SUO AMORE AL CRISTO CROCIFISSO

Don Felice era innamorato del Signore Crocifisso. Sovente nel suo Diario si trovano perle di sapienza evangelica come queste: «Saper amare e saper soffrire sono la preparazione alla pratica del saper offrire e sapersi offrire». «Tre sono i movimenti della nostra vita: amare, soffrire, offrire. Tutto sta nel saper amare, soffrire, offrire. Beato chi, guardando a Cristo, che ha saputo appunto: amare, soffrire, ed offrire in modo superlativo per l’Umanità, aderisce a Lui». Contemplando quotidianamente l’Amato Crocifisso, maestro di un amore che soffre e del dolore che ama, nella meditazione della Via della Croce, nella celebrazione eucaristica dove l’altare diventava il calvario, nell’amorosa meditazione dei brani della passione e nella imitazione della vita dei santi innamorati del Crocifisso e della sua Passione, si sentiva infiammato dallo stesso amore che lo teneva inchiodato al legno: le anime. Non a caso nella Parrocchia di Croce Santa la grande croce che si staglia verso l’alto è senza il Crocifisso. L’ha voluta così perché su quel legno doveva essere inchiodato anche lui tutte le volte che nel suo ministero, dimentico di sé stesso, viveva la legge evangelica del dare la vita sino alla fine. Perciò l’unico linguaggio che don Felice parlava era quello del dono senza misura e lo parlava bene perché sulla croce c’era anche lui. Nella morte in Croce del «più bello tra i figli dell’uomo» (Salmo 44, 3), don Felice trovò il vertice e la consumazione di ogni suo possibile rinnegamento di sé stesso. «Il Crocifisso ci mette nella condizione di dire che nulla è mai abbastanza».La contemplazione del Crocifisso lo rendeva sensibile alle sofferenze e ai bisogni di tutti i crocifissi vivi: i poveri. In loro ritrovava i lineamenti dell’Amato Gesù, uomo dei dolori: «Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me (Matteo, 25, 40)»e sentiva profondamente «ardore d’amore per la croce di Gesù e la croce dei poveri». Le ultime parole di Gesù divennero per don Felice un testamento a cui fare sempre riferimento nella sua vita spirituale. Gesù in croce gridò: «Ho sete» (Giovanni 19, 28). Don Felice nel lavoro instancabile della sua giornata a contatto con una infinità di persone, problemi e situazioni personali si impegnò a vedere anime nei corpi e a puntare ad esse per mezzo di una buona parola e soprattutto con la forza trascinante dell’esempio e definì l’apostolato che additò a tutti: «Sentire noi la sete di Cristo e provocarla nei fratelli». Gesù in croce disse alla Madre: «Ecco tuo figlio» (Giovanni 19, 26) e al discepolo: «Ecco tua madre» (Giovanni 19, 27). Don Felice, continuatore dell’opera di Gesù, fu chiamato a compiere questa missione: Dare Maria alle anime e dare le anime a Maria con una pietà soda, filiale. Con la speciale devozione ai titoli mariani di “Addolorata, mamma celeste, corredentrice, mediatrice, Madonna del Soccorso, Ausiliatrice”, don Felice evidenziò il mistero sacerdotale e di offerta della Madre di Dio che, sotto la croce, si associò al primo e grande atto sacerdotale di Gesù: la sua donazione al Padre nella morte e nell’effusione del sangue e, con lei e alla sua scuola, visse il suo sacerdozio come apostolo, sacerdote-vittima: «Sulla Croce, sul Calvario, da Gesù e da Maria germoglia il mio sacerdozio. Io, prete, li rappresento ed esercito visibilmente l’opera che essi compiono in maniera invisibile, Gesù, da sacerdote, Maria, da madre. Mio Dio, chi sono dunque io che nasco sulla croce di Gesù e di Maria e vivo con loro, di loro e opero a nome loro? Come posso staccarmi da te, o Madre, che interiormente operi, da madre, tutto ciò che io all’esterno opero, nel regno della Grazia, da ministro di Gesù Sacerdote?». Gesù in croce gridò: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito (Luca 23, 46)». Guardando a Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, disponibile in umiltà e generosità alla volontà del Padre, in sacrificio di espiazione redentiva per il peccato dell’uomo a gloria di Dio e racchiudendo tale disponibilità dal “fiat” al “in manus tuas”, Don Felice trovò la forza per la sua totale donazione a Dio e alle anime. Gesù in croce gridò: «Tutto è compiuto» (Giovanni 19, 30). Per Gesù fu il grido supremo della Redenzione, grido di dolore, ma anche di trionfo, perché la volontà del Padre si era perfettamente compiuta. Don Felice visse questa realtà, chiedendo al Signore la grazia della perseveranza e della morte nel segno del “Consummatum est!” ossia del sentirsi liso, logorato come un abito usato, consumato dal fuoco dell’amore che aveva infiammato e bruciato e ogni cosa (salute, mente, intelligenza, sensibilità, forza fisica ecc..). «O mio Gesù, voi siete la stessa carità, accendete nel mio cuore quel fuoco divino che consuma i santi e li trasforma in Voi».

Sr Francesca Caggiano

La Vice Postulatrice