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15 Febbraio 2022

Don Felice Canelli e il colera nel foggiano

Nella provincia di Foggia don Felice Canelli era soprannominato l’anima vibrante dell’azione cristiano-sociale, ovvero, l’anima della fede cristiana genuina che si rende operosa per mezzo di gesti di difesa, di opere di aiuto, di educazione e di promozione dei bisognosi. Se san Giacomo nella sua lettera scriveva: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo», don Felice ne offriva una sintesi: “La religione è compenetrazione dei bisogni altrui”!

Mons. Mario De Santis lo tratteggiò come “il figlio del tuono”. Ebbe modo di conoscerlo durante la Settimana Sociale della Gioventù Cattolica di Capitanata a Troia, nel lontano 1920. A quel tempo era un ragazzo. L’impressione che gli fece non si è più cancellata. Don Felice sembrava un turbine. Il suo fisico asciutto e segaligno sembrava un concentrato di energia quando si trattava di difendere i diritti di Dio e dei poveri. Quando prendeva la parola con quella sua voce acuta e penetrante, vibrava da capo a piedi come se i pensieri che esprimeva sprizzassero da tutte le fibre della sua persona per poi materializzarsi in azioni coerenti. Forte come un leone, ma tenero come un padre per gli tutti gli esclusi, don Felice non si tenne mai a distanza difronte al dramma umano, non rimase a guardare alla finestra la dura esistenza dei poveri, degli ammalati, ma si prodigò per loro in ogni modo, riconoscendo in essi i preferiti del Signore.

Nel triennio 1910-1912 a San Severo e dintorni scoppiò una grave crisi agraria e il colera. Purtroppo il colera aggravò le condizioni di vita già precarie per la quasi totalità della popolazione che non aveva pane e lavoro. Persino l’ospedale si rifiutò di portare i soccorsi necessari al popolo. Il colera, come il Covid, stroncava tante vite innocenti. La città era in balìa di se stessa: senza pane e senza soccorsi medici. Don Felice era il rettore della chiesa di “Sant’Antonio Abate”. Adiacente alla sua chiesa vi era l’ospedale gestito dalle Figlie della Carità: da lì, era impossibile ignorare come il morbo mietesse vittime. Inizialmente coadiuvato da Graziana Russi e Luisa Lacci, si interessò degli ammalati poveri (doppiamente poveri di dignità e di medicine), prima con modesti mezzi economici propri, poi aiutato da famiglie benestanti e dal Comune, creando un movimento circolare di umanità, di fede, di solidarietà. Insieme alle medicine don Felice portava un piatto di pasta, condito con il sorriso e la speranza. Egli portava la vicinanza, la tenerezza, la compassione di Dio ai malati. Era il piccolo seme che avrebbe dato origine alle Dame di Carità, la cui opera continua ancora oggi col “Volontariato Vincenziano”. Con quel manipolo di donne, creò in città un nuovo modello di cultura basato sulla fratellanza, sulla gratuità, sul bene fatto per la gioia di farlo. Per usare le parole di Papa Francesco, ai tanti che in città e dintorni erano diventati analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e i più deboli, don Felice, con i gesti del buon Samaritano, propose la solidarietà e l’amicizia sociale come possibilità di cambiamento anche nelle situazioni più complesse e dimostrò la vera missione della chiesa: essere una presenza di amore che si china per far rialzare gli altri.

Sr Francesca Caggiano

La vice postulatrice