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Don Canelli e il vino di Capitanata

Nella Capitanata del secolo scorso tutti conoscevano il parroco di Croce Santa in San Severo. La sagoma era inconfondibile: un sacerdote con la “S” maiuscola che per quasi un secolo (1880-1977), mosso dalla sua fede nel Signore Gesù, si era fatto fratello universale (usando un’espressione di Papa Francesco) di tanti poveri, giovani, abbandonati che ricorrevano a lui, certi di venire ascoltati ed aiutati nelle loro concrete necessità. Era un prete che guardava ai veri bisogni della gente e con l’audacia della carità cristiana inventava strade di vicinanza e di solidarietà con il popolo che lo riteneva il padre e il benefattore di tutti i diseredati e in nome del Maestro, diventava il Buon Samaritano che si prende cura di tutte le ferite del suo popolo e le lenisce. Era proprio la fede a renderlo sensibile alle necessità materiali e spirituali perché chi segue Gesù, non si estranea dalla vita concreta o non teorizza sulla solidarietà, ma al contrario si fa più umano, si indigna e si lascia sconvolgere dalla sofferenza degli altri. Don Felice diceva: “Qual è il nostro altare? Il Tabernacolo del tempio e la mano del povero”. Per questo era dovunque: prima sull’altare in profondo dialogo con Dio per andare poi nei tuguri dei poveri del giro esterno della città, nelle abitazioni dei ricchi per chiedere aiuti economici per le sue molteplici opere assistenziali, sul palco del comizio come segretario del partito popolare per chiedere leggi giuste per tutti a partire dagli esclusi, nel suo ufficio come ricercato confessore direttore di vita spirituale, per strada come leale e prudente consigliere della D.C. e delle varie parti politiche, nel cortile della parrocchia per giocare con i piccoli, nelle scuole della città parlare della gioia del Vangelo, al capezzale dei moribondi come aiuto sicuro nell’ultimo passaggio, dinanzi la porta dell’amministrazione comunale per chiedere aiuti per i bambini dei figli dei braccianti, per i disoccupati, per i lavoratori, per assicurare la mensa quotidiana agli anziani, ai piccoli, etc…etc..

Poco più di un secolo fa, nell’ottobre del 1919, pochi giorni dopo l’inaugurazione del Partito Popolare nella città di San Severo un manifesto cittadino denunciava una tassa straordinaria sul vino giacente nelle cantine della città. Tutti i contadini e i viticultori erano in gravi difficoltà: dopo un anno di lavoro e di stenti il vino rimaneva non venduto e il pane non si portava a casa. Ci fu una ennesima rivolta popolare: la fame, la povertà rendevano tesi come corde i nervi della povera gente. Don Felice allora con il partito scrisse un telegramma all’On. Visocchi, Ministro di A.I. [Agricoltura dell’interno] e C. [dei culti] chiedendo la diminuzione della tassa e la facilitazione della vendita del vino. Anche l’on. Mucci, convinto socialista locale, era partito il giorno prima per Roma con una commissione di viticultori per interessare il Governo al problema locale. Don Felice però non solo fece sentire la sua voce scrivendo al Ministro ma spedì al socialista Mucci un telegramma di solidarietà del P. P. I. sui gravi problemi del popolo facendo notare che, nonostante le divergenze ideologiche, era possibile diventare un “noi” per il bene comune.

Sr. Francesca Caggiano FMA
La vice postulatrice