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20 Settembre 2024

OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI IN OCCASIONE DELL’ORDINAZIONE DIACONALE DI CIRO COCO E MICHELE LOMBARDI

Quella che stiamo vivendo, carissimi, è una gioia moltiplicata e la esterniamo volentieri, quale unanime risposta davanti alla sorpresa della scoperta di quanto il Signore ci ami. Egli lo fa ogni giorno, in ogni istante. Nella celebrazione eucaristica, poi, tocchiamo il culmine, poiché l’esuberanza del suo amore lo porta a donare tutto se stesso, il suo stesso corpo. Pregando in Cristo, infatti, contempliamo il destino della nostra fragile umanità abitata per sempre da Dio, cosicché ognuno di noi, in lui, trova, finalmente, il senso dell’esistenza, raggiunge la pienezza della vita e ne scopre la bellezza, quando è disposto a spenderla per amore.

Stasera, poi, la nostra gioia trova come immediato e bel motivo l’ordinazione diaconale di Ciro e Michele. Questo momento di grazia darà loro la “forma di Cristo”, la forma di Cristo servo. Essi accetteranno liberamente tra pochi istanti di lasciarsi configurare a Lui attraverso la potente opera dello Spirito. Faranno proprio lo stile affascinante di Gesù che ha provato “più gioia nel dare che nel ricevere”, che ci ha insegnato che “nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici”, che, prendendo il catino e un grembiule e curvandosi davanti ad ogni apostolo, ne ha lavato piedi, compresi quelli di Giuda.

In questo momento, perciò, stiamo celebrando il mistero dell’amore divino e dell’amore umano, senza separarli, anzi cogliendo il fatto che quest’ultimo (l’amore umano) è la normale conseguenza del primo.

Mettendoci alla scuola di Cristo, raccogliamo, perciò, l’eco della sua Parola. Nella Prima Lettera ai Corinti, Paolo richiama il valore della tradizione e comunica la volontà di trasmettere fedelmente il bagaglio della fede che egli stesso ha ricevuto e, nello stesso tempo, esorta la comunità cui è indirizzata la lettera a usare lo stesso criterio al fine di evitare di alterare la verità di Gesù Cristo. Ora, il segnale dell’assoluta importanza di questa pagina sta nel fatto che Paolo questa Verità che professa con la bocca sarà pronto a difenderla con il dono della sua stessa vita, con il martirio. Egli ci insegna, così, che la missione dell’apostolo, di ogni apostolo, non è innanzitutto quella di spiegare la Verità, ma di testimoniarla!

Nel testo si coglie che Paolo avverte in sé, come in un crescendo, un nuovo bisogno rispetto a quello dell’annuncio del vangelo di Gesù Cristo, che aveva già fatto: sente la necessità di “proclamare” ciò che aveva già “annunciato”. Forse potremmo non cogliere questo passaggio, considerandolo una semplice sfumatura, tanto siamo abituati noi, invece, al semplice annuncio, relegando la “proclamazione” al solo ambito liturgico.

Va precisato, intanto, che per san Paolo, intanto, l’annuncio non era mai una mera comunicazione nozionistica da difendere arcignamente. Il testo, infatti, dice letteralmente che egli “aveva comunicato con bellezza/con bontà la buona notizia”. Quanta forza in questa espressione, che contiene per ben due volte il termine “bello”/“buono”. Ripeto l’espressione: “aveva comunicato con bontà la buona notizia”.

È vero, anche noi, in quanto cristiani, parliamo, catechizziamo, evangelizziamo e molto spesso con grandi sforzi e con una non sempre opportuna prolissità, ma se sottoponiamo a verifica molte delle nostre fatiche pastorali, ci accorgeremo ben presto che probabilmente spesso nelle nostre tante parole ciò che manca è proprio la bellezza e la bontà dell’annuncio, Un’assenza, purtroppo, che priva l’annuncio della sua stessa congenita forza persuasiva e che, di conseguenza, non è in grado di suscitare risposte interessate.

Il recupero della bellezza e della bontà dell’annuncio cristiano è una priorità! Siamo chiamati a questo, ma non è un punto di partenza facile. E, per molti aspetti non è affatto un punto di partenza, poiché la gioia non si improvvisa, né si simula. Essere felici davvero e stabilmente è, infatti, sempre e per tutti, la sfida più grande. E noi ne siamo certi! Solo l’incontro con il Signore vivente può permettercela, poiché solo il suo amore dà pace, rende “beati”, anche nelle situazioni più difficili.

Ora la cosa che sorprende è che Paolo non si limita all’“annuncio gioioso”, già di per sé impegnativo, come abbiamo già accennato. Sente il bisogno di “proclamarlo”. Un verbo i cui contorni semantici sono sfumati, tanto da lasciarci nel generico, ma proprio per questo, necessita di un approfondimento che ci faccia cogliere la ricchezza del suo significato. Il verbo “proclamare” apre un amplissimo ventaglio di possibilità: comprende il significato di “richiamare”, del “rendere manifesto”, dell’“approfondire”, del “ribadire pubblicamente”, del “gridare ai 4 venti”. Tanto che la proclamazione del Vangelo più che ad una solenne celebrazione, fa immediato riferimento allo stile di chi annuncia, anzi di chi insiste “opportune et importune”, “a tempo e fuori tempo” (2 Tm 4,2). Il messaggio della salvezza, il cui bisogno è forte bisogno oggi quanto o più di ieri, non può essere bisbigliato o come ha detto qualcuno comunicato in pantofole. Occorre molto di più. Molto di più!

Poniamoci ora due domande. La prima: qual è la maniera più efficace, allora, per “proclamare”, nel senso pieno di questo termine?

Una proclamazione vera si nutre, innanzitutto, dell’accoglienza che noi per primi facciamo del mistero della salvezza realizzata da Cristo, di un’accoglienza che si esprime in un sincero ascolto di Lui e si trasforma in una ininterrotta preghiera del cuore, la sola capace di orientare le scelte di fondo dell’esistenza. La salvezza accolta diventa, così, giorno dopo giorno, realtà. San Paolo puntualizza, poi, anche le condizioni con le quali custodire il dono ricevuto: la saldezza che deriva dall’essere ancorati in Lui, senza alcun cedimento; l’integrità del messaggio che non tollera adattamenti, sconti su di sé o sugli altri, o maldestre fughe dall’appuntamento con la croce e, infine, la necessità di predicare sempre e solo Gesù Cristo, quale salvatore del mondo, per evitare di predicare se stessi. Quest’ultimo aspetto, poi, poggia sul fatto che se è vero che noi per primi siamo “i salvati” e mai “i salvatori”, lo stile sarà quello di chi annuncia con gioia e non l’orgoglio del predicatore saccente, l’umiltà di chi come Paolo si considera “il più piccolo tra gli apostoli” (minimus apostolorum) – che bella questa espressione! –  e mai la presunzione di chi si considera il primo della classe. Il Signore fa cose grandi solo con i piccoli, se rimangono tali, come è accaduto alla Vergine Maria.

Ecco la seconda domanda da affrontare con serietà: quando possiamo dire, come Paolo, che “la grazia di Dio in noi non è stata vana…”? Quando riusciremo ad affermare anche noi, senza paura di essere smentiti: “ho faticato più di tutti loro…”. Il segno di garanzia che non stiamo vanificando ciò che avviene in noi attraverso la presenza dello Spirito, allora, è la “fatica”, il servizio. Basta pensare alla suocera di Pietro che dà prova di essere guarita proprio mettendosi a servire. Si è saldi nella fede quando ci si spende, vivendo la carità; si custodisce il dono della grazia, donandosi senza misura.

Il vangelo, poi, è sempre incredibile e anche stasera ci avvolge con la sua luce. Ci sono due protagonisti: una donna, considerata “minima” da tutti, e un noto fariseo.

Da quale parte vogliamo stare? Dalla parte del fariseo o della peccatrice? Dalla scelta che faremo dipenderà il seguito.

Vestire i panni del fariseo è per noi un rischio non troppo remoto. Egli, nell’episodio che abbiamo ascoltato, infatti, si presenta non bene, ma benissimo: invita Gesù, anzi addirittura lo “prega”, come leggiamo letteralmente nel testo originale. Non sempre, di conseguenza, la preghiera è una garanzia per la fede, se non è fatta con una coscienza trasparente, onesta, con umiltà e con la consapevolezza delle proprie colpe e del bisogno di essere rinnovati nel cuore.

Quello che possiamo imparare, invece, dalla donna evocata dal vangelo e che il suo senso di inadeguatezza non le impedisce di cercare Gesù. Sembra infischiarsene del contesto per niente favorevole, ha occhi solo per il Maestro di Nazaret. È tenace nella sua volontà e niente è in grado di fermarla, pur avendo su di sé il peso di ben visibili ipoteche.

Era donna e, di conseguenza, in quel clima maschilista sapeva di essere sottostimata. Era una nota peccatrice e ormai aveva cucita su di sé un’indecorosa etichetta, che la rendeva imperdonabile agli occhi dei presenti ed era entrata inaspettatamente e senza invito nella casa di un fariseo, dove certamente non era gradita, se non altro perché avrebbe potuto rovinare il buon nome, la reputazione di chi stava ospitando Gesù.

Eppure con questo pesante fardello, lei entra lo stesso non tanto in quella casa che non le interessava, quanto nel cuore del Signore e lo fa con la determinazione di scelte forti ed eloquenti anche per noi, scelte in cui si intrecciano una squisita sensibilità femminile e una straordinaria fede.

L’acquisto del vaso di profumo prezioso, innanzitutto, perché aveva intuito che il corpo di Gesù era ancora è più prezioso, tanto da diventare dono/pane di vita per molti, fino a noi questa sera; la scelta, poi, di rimanere dietro di lui, avendo un grande senso di indegnità a causa del senso di colpa che la logorava e, infine, il suo bagnare con le lacrime i piedi del Signore e asciugarli con i suoi capelli, in atteggiamento di sincera gratitudine e di profonda adorazione.

Il suo era il bisogno di qualcuno che la amasse veramente. In lei che era sola, anzi isolata, non c’era seduzione, ma solo il bisogno di essere riconosciuta, amata nel cuore e amata per sempre.

E tutto ciò mentre il fariseo è costretto dal suo orgoglio a limitarsi a “dire tra sé” e a perdersi nel suo tronfio mugugno. Egli paventa una perfezione esteriore, una galanteria e un galateo da copione, ma dentro il suo cuore ha il buio. Sotto le mentite spoglie di un’accoglienza ineccepibile c’è un cuore sospettoso e giudicante. È proprio vero! La discriminante di un’accoglienza vera si trova nel cuore: è lì che si offre la prima e più sincera accoglienza o si oppone il più rigido e spietato rifiuto.

Decidete nel cuore, carissimi Ciro e Michele, di lasciarvi servire dalla Parola per diventare servi di essa. Cercate, incontrate Gesù, entrate in intimità con Lui con la stessa determinazione di quella donna che sapeva di poter osare perché il Signore perdona molto a chi molto ama.

Spandete il profumo dei vostri sacrifici quotidiani: questo sarà il vostro servizio. Questa sarà la vostra più nobile adorazione.

E come voi avete avuto bisogno della Chiesa, della comunità che vi ha trasmesso credibilmente la fede nel Risorto, così ora noi, Chiesa, abbiamo bisogno di voi, del vostro gioioso entusiasmo. Insegnateci con la vostra vita il bel paradosso che, quando si è stanchi e delusi, non ci si deve riposare, ma mettersi in cammino.

San Severo, 19 settembre 2024

+ don Giuseppe

OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI IN OCCASIONE DELL’ORDINAZIONE DIACONALE DI CIRO COCO E MICHELE LOMBARDI