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26 Settembre 2024

OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI IN OCCASIONE DELLA SOLENNITÀ DI SAN SEVERO VESCOVO 2024

Siamo raccolti in preghiera e vogliamo vivere questo momento da protagonisti, non subirlo, sapendo, però, che per essere protagonisti, dovremo poter rispondere alla più ovvia delle domande: “cosa dobbiamo fare?”. Una domanda, forse, che quando siamo chiesa ci poniamo poche volte, perché pensiamo che il tempo della messa vada avanti un po’ da se stesso e a prescindere da noi. E invece è la domanda più importante, perché, supponendo che nella risposta prevalga l’intenzione di pregare, sappiamo di essere alla presenza del Signore, di doverci mettere davanti a lui in verità e umiltà, di doverci predisporre ad accogliere il suo amore e, finalmente, di doverci lasciare trasformare da esso, una trasformazione che vede come primo risultato il cambiamento delle nostre relazioni reciproche.

Sto dicendo, in altri termini, che stasera non stiamo abitando innanzitutto un luogo, ma ci è offerta la decisiva scelta di entrare in un’altra dimensione, quella della relazione con il Signore, una dimensione che ogni tanto affiora, ma che molto spesso purtroppo consideriamo marginale rispetto al nostro vissuto concreto. Ma qual è la vera dimensione della vita? Qual è quella fondativa del nostro essere? Quella che ci vede occupati nei nostri mille affari o quella che ci permette di riconoscerci tutti figli amati e tra noi fratelli, quella cioè di scoprire che su di noi c’è uno straordinario progetto che dà senso a tutto e che, per questo, non può essere barattato in alcun modo? Cosa rimane alla fine? Dov’è l’essenziale cioè? Domande scottanti e per molti versi enigmatiche, ma che non possiamo soffocare semplicemente non pensandoci.

Oggi, poi, questo giorno è per noi favorevole, data la nostra comune devozione al Santo Vescovo Severo, il quale nel proteggere le sorti della nostra città e della diocesi intera, ci affida un segreto da non dimenticare mai; che, cioè, chi vuol essere protagonista nella vita come cristiano deve esserlo prima nella preghiera. Queste due fasi non possono essere disgiunte, pena il fallimento di ogni tentativo personale o comunitario.Non sciupiamo, perciò, questa azione liturgica, perché se ci capitasse che celebriamo tante messe, continuando ad essere sempre gli stessi con l’autoconvinzione che non potremo mai cambiare perché siamo fatti così, dovremmo chiederci seriamente se ha ancora valore per noi tutto l’attivo di preghiera o di preghiere che forse vantiamo con orgoglio. La messa ci ricorda e rende attuale ciò che è al cuore della nostra esistenza: la presenza viva del Risorto che apre questa esistenza all’eternità e che quindi ci permette di guardare le cose e il tempo da un’angolatura del tutto nuova.

È l’angolatura della speranza, bene così raro e, a tratti, ormai in esaurimento anche tra di noi. Una prospettiva che certamente troviamo nelle pagine della scrittura appena proclamata.Se partiamo, infatti, dalla situazione storica nella quale viveva il profeta Ezechiele, del quale abbiamo ascoltato un brano nella prima lettura, vediamo come la situazione sociale ai suoi tempi fosse drammatica, a causa delle situazioni di ingiustizia e deludente per le gravi inadempienze e incoerenze dei pastori i quali cercavano il potere, invece di mettersi al servizio, faticavano per accaparrare, invece di spendersi volontariamente a vantaggio soprattutto dei più poveri e degli ultimi. La classe sacerdotale era distante dalla gente, perché distratta dalle sue cose “sacre”. Ma proprio in quel contesto il profeta comunica un chiaro messaggio: Dio stesso sarebbe sceso in campo, come un pastore che ama il suo gregge, perché ogni pecora gli era cara, molto cara.

Dio non può perdere tempo davanti alla malaugurata sorte della possibile perdita e rovina del suo gregge e perciò quel “io stesso”, riferito a Dio e riportato dal profeta, è una esplicita ammissione dell’incuria dei suoi pastori e, nello stesso tempo, la chiara espressione della sua decisa volontà di non vedere la rovina di nessuno su questa terra.

Noi, invece, siamo abituati a perdere, a rompere i legami, a ritirarci dalle relazioni e spesso senza accorgercene. Siamo perfino abituati a rimanere immobili davanti alla cronaca quotidiana, come quella giunta l’altro ieri dalla guerra tra Palestina e Israele, che ci comunicava, in tempo reale, la morte di più di 500 persone, tra cui 30 bambini. Il nostro inconscio semplicemente rimuove. Dio no!Cosa farà allora? Quale sarà il suo progetto? Quale sarà il suo piano pastorale, diremmo oggi?

Lo abbiamo ascoltato con chiarezza: io stesso – dice il Signore – cercherò le mie pecore, io stesso le passerò in rassegna, io stesso le radunerò, io stesso le farò pascolare in ottime pasture, io stesso le farò adagiare su fertili pascoli, io stesso le farò riposare, io stesso andrò in cerca della pecora perduta, io stesso ricondurrò all’ovile quella perduta, io stesso fascerò quella ferita e curerò quella malata, io stesso avrò cura della grassa e della forte, io stesso le pascerò con giustizia. Il Signore ha le idee chiare, così come si evince, e in questo progetto ci mette tutto se stesso, perché in lui verità e amore coincidono.

Quell’“Io stesso” potrebbe, però, indispettirci, soprattutto perché sappiamo, noi misere creature, di non poter reggere il paragone con lui e perché abbiamo la sensazione che Dio voglia soppiantarci con un decisivo e fatale colpo di mano. Ma per non rischiare di fare entrare Dio in contraddizione, non possiamo dimenticare che egli ama, che egli è amore. E chi ama non potrà mai dire: esci perché sei incapace e lascia fare solo a me, affinché io faccia ciò di cui tu non sei capace? Un Dio così sarebbe ancora un Dio amore o sarebbe piuttosto un despota che umiliandoci ci toglie dalla scena, facendo calare per sempre il sipario su di noi? Dio non agisce così, con quella meschinità che spesso rientra invece nelle corde umane.Non dimentichiamolo: Dio non è mai esclusivo, ma sempre inclusivo…Non gli basta avere la regia, ma scende in campo per accorciare le distanze visto il bisogno dell’uomo e il suo limite. Si incarna non per diventare la nostra riserva, ma per farsi nostro servo e per abitare in ognuno dei tanti miliardi degli esseri umani. Raggiungendo il cuore dell’uomo, poi, Egli lo trasforma e gli offre la più importante e la più bella delle possibilità: renderlo capace di amare. Per noi, non al nostro posto!

E i santi sono la prova più plausibile che quello che il Signore ha promesso è in grado di realizzarlo davvero, ma solo se l’uomo glielo permette. Sì, Egli è onnipotente, ma è anche debole perché l’amore che offre passa attraverso il nostro consenso, che, a volte, come sappiamo, non gli concediamo.Ci lusinga che l’agire di Dio abbia due evidenti e costanti caratteristiche: quella di muoversi sempre all’insegna della concretezza e quella di portare sempre a termine ciò che ha iniziato. Ma la cosa più disarmante è che quando agisce, non smette di percorrere la via della storia, della nostra storia. Non smette, cioè, di credere in noi e di amarci, ma continua anche a voler operare attraverso di noi. Non ci sostituisce, ma ci incoraggia ad alzarci e a riscoprire la nostra dignità, la nostra forza, la bellezza della nostra esistenza con le sue innumerevoli potenzialità.

Sta qui la ricaduta immediata della preghiera e, se lo vogliamo, della preghiera di questa sera.Se pensiamo al contesto in cui visse San Severo, infatti, ci accorgiamo che egli viveva in un momento cui dilagava il paganesimo. Mi sono chiesto se oggi poi le cose siano molto cambiate, poiché il paganesimo di ieri, in fondo, ha solo nomi diversi: oggi c’è indifferenza, c’è un dilagante secolarismo, un diffuso relativismo, un asettico politicamente corretto. Oggi perciò la situazione non è diversa. Le sfumature sociali e ideologiche sono tante, ma più che un incentivo alla radicalità, sembrano essere il terreno fertile del compromesso, assunto quasi come una regola di vita.Eppure anche in un clima cronologicamente lontano rispetto a quello del nostro Santo Protettore, molti testimoni ci incoraggiano a non essere remissivi, rassegnati, né a sentirci perdenti. Ci viene chiesto di non accontentarci della mediocrità e di non aver paura della misura alta del cristianesimo che è ben stigmatizzata nelle parole di Gesù quando ha detto di sé: “do la mia vita”.

“Do la mia vita” sembra un richiamo troppo grande, ma il suo esempio continua ad affascinare ancora.Basta pensare al giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia siciliana il 21 settembre 1990 e oggi riconosciuto Beato dalla Chiesa. Egli diceva: “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio”. Quella “legge dell’amore”, lui l’ha ratificata, poi, con la sua stessa vita. Quelle parole di Gesù (“do la mia vita”) furono ripetute dal Servo di Dio, Don Felice Canelli, quando, parafrasando san Bernardo, si poneva questi interrogativi: “Perché non bruciamo noi che ci accostiamo così di frequente al fuoco? Perché le nostre parole non sono scintille di fuoco? Perché non siamo risplendenti noi che riceviamo la luce?”… Sono domande espresse con amarezza e che mirano a svegliare il torpore da cui siamo spesso avvolti. “Do la mia vita”: parole fatte proprie da don Francesco Maria Vassallo, che a noi che pensiamo di avere già lo status di cristiani, ricorda che “la strada incomincia quando un cuore si avvia perdutamente”. Egli perciò ci sprona ad “essere incontenibili nell’amare” a “essere incontenibili nell’amore” e a vivere di un “amore oblativo” senza sperare il contraccambio.

Il Signore ci custodisce, la Vergine Maria ci è sempre accanto, il Santo Patrono ci protegge non perché rimaniamo in un inalterato status quo, né perché tutti i nostri bisogni, compresi quelli superflui, siano garantiti, ma per sostenere il nostro cammino di discepolato, il cui traguardo, anche per noi, non può non essere che quello di dare la vita. Sarebbe bello se anche noi imparassimo a declinare quel “do la mia vita” che stasera abbiamo sentito a più voci. Incominceremmo, forse, a soffermarci di più davanti al Signore Gesù e alla schiera degli innumerevoli testimoni registrati in 2000 anni di cristianesimo. Apprezzeremmo di più anche i momenti difficili, perché capiremmo che proprio in quelli ci è chiesto di dare tutto noi stessi. Sapremmo che la via evangelica, apparentemente in perdita, è in realtà quella più proficua ed efficace, capace di infrangere ogni muro di cinismo, così come si strappa un velo di carta velina.Preghiamo, allora, perché possiamo dare anche noi la vita per amore e solo allora scopriremo la verità e l’urgenza della nostra fede.

Cattedrale di San Severo,

25 settembre 2024

+ don Giuseppe